Riflessioni preliminari e collaterali al Codice Deontologico Forense

Riflessioni preliminari e collaterali al Codice Deontologico Forense

Parere del novembre 2015

Riflessioni preliminari e collaterali al Codice Deontologico Forense

Ritengo opportuno iniziare con due affermazioni generali.

1. L’efficacia e la conseguente gratificazione personale di qualsiasi azione umana, quindi in particolar misura dell’agire dell’avvocato, sono direttamente proporzionate alla consapevolezza del ruolo svolto, dei relativi compiti, dei fini perseguiti e dei mezzi più idonei.

Nella misura in cui si è di questo consapevoli, l’azione risulta efficace e gratificante. Ogni persona e particolarmente ogni avvocato deve quindi anzitutto interrogarsi sulle ragioni della propria scelta, chiedersi se sente una reale propensione per le attività che svolge e se vuole assecondare tale propensione, ossia se intende veramente far propri e vivere i valori insiti nella sua attività. In particolare, l’avvocato deve essere consapevole di aver scelto di essere difensore dell’uomo e dei suoi diritti, portatore di razionalità, di equilibrio e di pace, propugnatore di giustizia ed assertore della dignità e delle libertà delle persone, nonché di essere attivo nella costruzione di sempre migliori relazioni tra chi incontra. Ad – vocatus significa appunto chiamato in aiuto e questo non è poco.

2. Tutte le scelte e tutte le azioni umane assumono il colore dell’animus operandi che sta dietro di esse, colore che riflette la disposizione interiore del soggetto agente. Quando l’animus è buono, la nostra azione è virtuosa, socialmente valida e poi appagante.

Alludo qui ad un retropensiero morale che sta prima e sopra, anche se in modo implicito, al nostro agire, un pensiero forte che si riporta anzitutto alla centralità, alla dignità ed all’uguaglianza ontologica delle persone ed insieme alla valorizzazione delle peculiarità e dei carismi dei singoli. Retropensiero morale e forte che si riconduce, nel caso dell’avvocato, alla funzione del suo lavoro come servizio agli altri, nella consapevolezza che nella sua professione si deve anzitutto dare, restando il compenso un semplice corollario che non deve entrare in discussione e non deve condizionare l’impegno e l’azione a favore del cliente. In questa prospettiva, importante appare distinguere tra il fare l’avvocato e l’essere avvocato. La prima espressione è certamente riduttiva, nel senso che richiama chiaramente il concetto di mestiere, cioè del mero agire per ricevere, senza il retropensiero morale di servizio, di prospettiva comunitaria e sociale di cui si è detto. La seconda espressione, essere avvocato, al contrario evidenzia meglio la chiamata in aiuto espressa dal nome stesso. Lo spazio professionale infatti, come ogni spazio nella società, può essere vissuto in tre modi. Il primo è quello dell’essere in, secondo le modalità di chi agisce principalmente per sé, posponendo o addirittura considerando marginalmente gli interessi ed i sentimenti di quanti incontra, non dando cioè il dovuto peso alle proprie responsabilità. Il secondo modo, quello dell’essere con, è proprio di chi asseconda il calcolo strumentale e paritario dell’ “io do qualcosa a te, tu dai qualcosa a me“. Il suo modello è l’uomo d’ordine che rispetta le regole, in vista soltanto di una reciprocità e dello scambio tra costi e benefici. Non è un cattivo modello, anzi è apprezzabile ma non basta. Il terzo modo di vivere lo spazio professionale è quello dell’essere per, che apre alla dimensione della prossimità nel rapporto io – altro e che implica responsabilità, non invece calcolo e reciprocità ma anzi a volte comporta gratuità; non ricorre cioè alla forza rassicurante dello scambio dei vantaggi. Il suo metro è quello di chi chiede a se stesso di agire bene ed in modo giusto, senza condizionare il suo comportamento a quanto ne potrà personalmente ricavare. Il buon avvocato non si ferma all’essere con, ma cerca di agire secondo l’essere per, ossia per il bene comune.

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Alla luce delle esposte affermazioni sulla consapevolezza del ruolo dell’avvocato e sulla necessità di un retropensiero morale, tento ora di formulare alcuni slogan che, in un modo o in un altro, rientrano in quanto detto. Si tratta di formule conclusive che, con un po’ di autoironia, qualifico come piccole pillole di saggezza.

a) I doveri devono prevalere perché salvano i diritti che altrimenti, in conflitto tra loro, si autodistruggerebbero.

Se esistessero solo i diritti, la convivenza non sarebbe possibile. Saremmo in una situazione di conflitto permanente, con effetti di autodistruzione. I diritti tendono infatti all’assolutezza, mentre il loro unico limite è quello degli altri diritti. A far rispettare i diritti altrui non sono però gli altri diritti, ma sono i doveri. Rispettare non è infatti un diritto, ma un dovere. Poiché il limite dei diritti consegue al dovere di rispettare quelli degli altri, rivendicare o avere un diritto significa assumersi anche dei doveri, non un diritto e basta. Sono quindi i doveri a regolare ed a permettere la convivenza. Se ne deduce così il primato della responsabilità rispetto al potere di disporre. Nella vita sociale rileva di più il dovere (cioè l’essere a disposizione) del potere (ossia l’avere a disposizione). Da soli i diritti dividono, i doveri al contrario accomunano. I diritti lasciati alla loro logica interna si distruggerebbero. Solo i doveri li salvano. Si può pertanto concludere che, nella scala dei valori, vengono prima i doveri. Questa convinzione deve far parte del retropensiero morale o animus operandi che colora l’attività e le scelte di ciascuno e in particolar modo proprio degli avvocati che, per definizione, sono strenui difensori dei diritti ma non devono certo essere oltranzisti.

b) Essere responsabili comporta la propria condanna permanente all’incertezza.

Questa incertezza è endemica alla responsabilità, mentre la certezza nell’ambito dell’opinabile è segno di irresponsabilità. La condanna all’incertezza suscita un’ansia che non è facile acquietare. D’altra parte non sono possibili opzioni valide per sempre: mutano i tempi e le situazioni (spesso ci tocca dire: E’ cambiato il mondo). Le decisioni si assumono hic et nunc, rebus sic standibus, senza perentorietà e massimalismi e senza alcuna pretesa di dire e di ottenere tutto e per sempre. E’ evidente però che, una volta che si sia deciso, l’azione debba essere ferma, non ondivaga anche se l’ansia potrà continuare.

Nelle scelte dell’avvocato peraltro a volte complica le cose pure l’incertezza delle norme, spesso contraddittorie, equivoche e lacunose (tanto che è riconosciuta la non sanzionabilità della violazione delle regole incerte).

c) L’avvocato deve essere consapevole dei limiti del suo sapere e della vastità del suo non sapere.

Circa due millenni e mezzo fa, Socrate affermava: “Io so di non sapere. E’ sapiente solo chi sa di non sapere, non chi si illude di sapere e ignora così perfino la sua stessa ignoranza” .

Karl Popper ha scritto: “La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita“.

Le figure geometriche del diametro e della circonferenza possono rappresentare rispettivamente ciò che sappiamo e quanto crediamo di non sapere. Se aumenta il diametro molto di più aumenta la circonferenza, così aumentando le nostre conoscenze assai di più cresce la percezione della nostra ignoranza, che peraltro in realtà va molto oltre.

La consapevolezza di questo comporta senso della misura, prudenza, equilibrio, tolleranza, rispetto delle opinioni altrui, disposizione al dialogo e all’ascolto. Tutte caratteristiche che devono costituire il D.N.A. del buon avvocato.

d) Essenziale è sempre l’umanità del professionista.

Secondo Piero Calamandrei, “l’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri e farli vivere in se stesso, assumere su di sè i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce“. L’avvocato deve cioè essere di indole “umana“, disponibile ad ascoltare, accogliere, parlare, spiegare e deve essere persona della quale ci si possa fidare. Di fronte ai propri assistiti, prima di essere un tecnico del diritto, deve avere e deve dimostrare nobili sentimenti e valori. A ciò consegue che deve sempre ed anzitutto capire di che cosa il cliente abbia effettivamente bisogno. Umanità significa trasparenza, coerenza, cortesia, stile, signorilità, soprattutto sensibilità ed apertura verso gli altri ed alle loro istanze, o, meglio ancora, capacità di amare.

In occasione del suo ottantesimo compleanno, Francesco Carnelutti, in un breve incisivo discorso, ha in proposito affermato: “La superiorità dell’avvocato sul giudice è questa. Il giudice per definizione giudica, non ama. L’avvocato, al contrario, ama non giudica. Ama anche se non se ne accorge. Non si può difendere senza amare. La difesa, proprio perché è il contrario dell’offesa, implica l’amore. Il giudice, alto sul suo stallo, guarda colui che deve giudicare da lontano. L’avvocato, collocato in basso accanto a lui, lo guarda da vicino. Né si può star vicino a uno sciagurato senza vivere, molto o poco, la sua sciagura” (in Justitia, 2007, n.4, p. 458).

e) L’Avvocato è nel libero mercato senza essere però del mercato.

Questa affermazione costituisce il plagio di un paragrafo della Lettera a Diogneto, nella quale l’anonimo autore greco del II-III secolo, spiegando ad un amico chi erano i cristiani, in sostanza ha affermato che questi erano nel mondo, come tutti, ma in realtà non erano del mondo.

In tema ricordo che la nostra tradizione da secoli concepisce le libere professioni come attività di lavoro intellettuale autonomo ed indipendente. La concezione di marca europea le assimila invece ora alle imprese (commerciali o artigianali) soggette alle regole economiche e giuridiche del mercato. Nel diritto comunitario le disposizioni sulle libertà fondamentali operano parallelamente a quelle sulla concorrenza. Le une e le altre devono concorrere e nessuna deve prevalere. La concorrenza tra i professionisti non può certo e comunque eliminare le norme di deontologia, ma purtroppo il rischio che la professione forense (e non solo quella) venga assoggettata ad un processo di mercificazione è alto. Credo che tutti gli avvocati non debbano rinunciare alle peculiarità della loro professione liberale, nella quale più dell’aspetto economico valgono la competenza, la diligenza, la tempestività, l’efficacia e conta moltissimo pure la qualità del rapporto personale tra avvocato ed assistito. Inoltre, la ragione primaria della disciplina delle professioni legali sta nell’interesse pubblico cui è particolarmente connesso il ruolo degli avvocati. Tale disciplina non può essere costretta nel solo alveo delle regole della concorrenza. Le norme sulle professioni sono rivolte a tutelare non soltanto gli interessi delle singole categorie ma anche e prioritariamente gli interessi generali della convivenza civile. Ad ogni modo, contro il mito del mercato e della libera concorrenza, gli avvocati devono rivendicare (e dimostrare in concreto) la nobiltà del loro ruolo nel delicatissimo ed essenziale ambito della giustizia, ruolo che non può essere assimilato a quello della produzione di cose o di servizi di tipo sostanzialmente mercantile. Sotto questo profilo, vale ribadire la distinzione tra fare l’avvocato ed essere avvocato, in sostanza tra semplice mestiere ed attività intellettuale qualificata, a speciale valenza comunitaria.

f) L’avvocato nel vivere la sua professione, deve anteporre gli esiti positivi e soddisfacenti a quelli che lo hanno deluso

Alludo qui al discorso della prevalenza della parte di un qualsiasi contenitore mezza piena, rispetto a quella mezza vuota. Fuor di metafora, non possiamo certo ignorare gli aspetti insoddisfacenti della professione, ma serenamente dobbiamo riconoscere che gli stessi sono quantomeno fortemente controbilanciati da moltissimi aspetti positivi e gratificanti (rinvio in proposito al brillante scritto dell’Avv. Tiziano Solignani: “Perché fare l’avvocato è bellissimo“, in blog.solignani.it). A mio parere, se si mettono realmente in pratica le indicazioni che precedono e si vivono con coraggio e passione i concetti di servizio, altruismo, dimensione sociale ecc., le soddisfazioni supereranno le delusioni. Trascrivo in tema (con una certa forzatura) l’incipit del romanzo Resurrezione di Leone Tolstoj: “Per quanto gli uomini, raccolti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, si siano studiati di deturpare la terra su cui si accalcano, per quanto l’abbiano coperta di sassi perché non crescesse nulla, per quanto abbiano strappato ogni filo d’erba che riusciva a spuntare tra gli interstizi, per quanto abbiano affumicato l’aria col carbone minerale e con la nafta, per quanto abbiano reciso gli alberi e cacciato via gli uccelli, la primavera è primavera perfino in città“. Mi pare che questa raffigurazione letteraria possa valere, mutatis mutandis, pure per la professione dell’avvocato: “Anche nei Tribunali e nei nostro studi è primavera“. Vale altresì l’ammonimento di Winston Churchill: “Il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti“.

g) L’avvocato non deve essere soltanto tale, deve essere anche molto altro.

Ciascuno di noi è una bioentità in grado però di pensare, capace di produzioni immateriali, ossia di autotrascendenza. In altri termini, “noi, a differenza di altri esseri viventi, abbiamo un Io. E quell’Io, appena ci nasce dentro, ha bisogno assoluto di avere un suo territorio, conquistarselo, difenderlo, ampliarlo. Ha bisogno di emergere a tutti i livelli sociali e cerca di farlo come può, che sia povero o ricco, di pelle nera o bianca o mulatta, uomo o donna … . Noi siamo Io in ogni istante nella nostra esistenza ed è quello il motore che ci anima e determina il nostro destino” (così Eugenio Scalfari, in Repubblica del 22-11-2015). Possiamo pertanto dire che noi siamo: – anzitutto la consapevolezza ossia la coscienza di noi stessi; – le nostre esperienze, il cammino e le opere che abbiamo compiuto; – inoltre tutto ciò che ricordiamo; – gli studi fatti e quanto abbiamo realizzato; – la nostra cultura in generale; – le nostre convinzioni personali sui problemi di fondo dell’esistenza; – i nostri programmi per il futuro; – le nostre relazioni interpersonali (mi auguro senza steccati); – le nostre passioni, propensioni e sensibilità; – la nostra maggiore o minore apertura mentale ed altro ancora. Evidentemente siamo pure i difetti, le lacune e le chiusure che ci appartengono, ma di contro siamo pure i propositi e gli sforzi che facciamo per emendarci. Tutto questo per dire che l’avvocato non è e non può essere soltanto avvocato. Il suo Io non deve ridursi esclusivamente alla sua professione. Egli non può dimenticare o accantonare tutti gli altri fronti ed aspetti della vita Non può ridursi ad un manichino vestito di avvocatura, ad un’immagine o maschera e nulla più. Il suo Io deve avere, deve percorrere e rivendicare altri spazi oltre a quello della professione (certamente importante e nobile ma non unico, né esaustivo). Egli deve essere sì un buon avvocato, però non solo ma anche molto altro. Le sue ulteriori responsabilità sono familiari, culturali, politiche, ecc.. Deve, per realizzarsi, mantenere ed incrementare, al di là della professione, molti interessi di vario tipo, assecondando le sue inclinazioni verso le arti, le scienze, la politica, lo sport, il turismo, ecc., evitando di ridursi via via ad una sorta di fossile legale. Anche la sua vita privata, i suoi piccoli segreti personali, le sue stramberie ed i suoi hobby vanno curati.

In proposito invito a leggere la bellissima novella n.187 di Luigi Pirandello, con il titolo “La carriola“, che penso si potrebbe anche intitolare: “Il curioso segreto di un avvocato” (si trova facilmente in via telematica). Ivi si legge la confessione del protagonista che è un affermato professionista, giurista, politico e soprattutto un valente avvocato. Egli ad un certo punto riflettendo dice dentro di sé: “Chi vive, quando vive, non si vede: vive … Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte. Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d’aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d’essere vivi. Solo si conosce chi riesca a vedere la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato“. Il discorso tipicamente pirandelliano, continua e la novella poi si conclude con l’avvocato che si chiude a chiave nella stanza del suo studio e, prendendo la sua vecchia cagna lupetta per le zampe posteriori, la induce per breve tempo a fare la cosiddetta carriola, camminando per alcuni metri con le sole zampe anteriori. E’ una sciocchezza, una cosa strampalata, ma è sua, è autentica, non fa parte della maschera o immagine che si è nel tempo costruito e che gli è stata riconosciuta, ma però fa parte del suo Io, nascosto ma reale. Si tratta di un breve atto che, all’inizio del racconto prima che il lettore sappia in che cosa esso consiste, l’avvocato così qualifica: “Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioia, perché vi assaporo, tremando, la voluttà di una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto“.

Chiudo ricordando, a sigillo di queste riflessioni, il famoso versetto del Coro dell’Antigone di Sofocle: “Molte sono al mondo le meraviglie, ma nulla è più portentoso dell’uomo“.

Giuseppe Onofri

(novembre 2015)