Il giudicato sostanziale non sempre copre il deducibile

Il giudicato sostanziale non sempre copre il deducibile

Parere dell'ottobre 2010

Il giudicato sostanziale non sempre copre il deducibile, infatti non vale per le ragioni non dedotte che non rappresentano un antecedente logico necessario della pronuncia

 

1. Il Caso

Un medico otteneva, in sede di giudizio del lavoro, in forza dell’art. 63 del D. Lgs. n. 165/01, in un primo e secondo grado di merito l’annullamento del conferimento ad altro sanitario dell’incarico quinquennale di direzione di una struttura complessa di un’Azienda Ospedaliera.

Il controinteressato ricorreva in Corte di Cassazione e, decorsi i cinque anni di efficacia del procedimento amministrativo annullato dai primi giudici, il medico che aveva ottenuto le due sentenze di merito favorevoli, proponeva sulla base di detto annullamento, avanti il competente Tribunale del lavoro, la correlativa azione di risarcimento danni per perdita di chance. Nel corso di quest’ultimo giudizio sopravveniva però la sentenza della Suprema Corte che cassava la sentenza impugnata e, decidendo subito nel merito, rigettava la domanda introduttiva del giudizio di annullamento del conferimento dell’incarico de quo, affermando in proposito che la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede rappresentano una fonte di responsabilità ma non una causa di annullamento dell’atto unilaterale (come quello di specie), o del contratto, perché la medesima non risulta riconducibile ad alcuna delle cause di annullamento previste dalla legge. La Corte di cassazione contestualmente affermava però che l’attore avrebbe invece potuto chiedere soltanto il risarcimento, prendendo atto che invece non lo aveva fatto.

Nel secondo giudizio avanti il Tribunale, a fronte della sopravvenuta sentenza del giudice di legittimità, il Tribunale adito dichiarava l’inammissibilità dell’azione di danni per perdita di chance.

Ci si chiede qui ora se il giudicato della Suprema Corte sia preclusivo o meno del ricorso in appello avverso quest’ultima sentenza.

2. Risposta al quesito

2.1 Si premette che, ai sensi dell’art. 2909 C.C., con il giudicato sostanziale l’accertamento contenuto nella sentenza non più impugnabile opera al di fuori del processo cui si è formato. Tale norma dice infatti che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. Ciò che è destinato a fare stato a ogni effetto è comunque l’accertamento del diritto fatto valere in giudizio dalla parte che agisce in proposito. In tema tradizionalmente si afferma che “il giudicato copre il dedotto ed il deducibile”. Si tratta ora di valutare se questo principio opera anche nel caso in esame.

2.2 Il Tribunale della causa di risarcimento, a mio parere, ha applicato in modo improprio detto principio giurisprudenziale omettendo di considerare che la giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione ha costantemente precisato che il medesimo, in ordine al quanto deducibile in una precedente causa, vale soltanto nei limiti oggettivi del giudicato segnati dai suoi elementi costitutivi, come tali rilevanti per l’identificazione dell’azione giudiziaria sulla quale esso si fonda, costituiti dal titolo della stessa azione (causa petendi) e dal bene che ne forma l’oggetto (petitum mediato) a prescindere dal tipo di sentenza adottato (Cass. sez.lav. 3/8/07 n. 17078). La Suprema Corte infatti nella specie non ha statuito alcunché sulla causa petendi, cioè sui fatti dedotti, ma si è limitata a negare, in astratta linea di principio (con una decisione peraltro non condivisibile) la possibilità del giudice di annullare il conferimento dell’incarico di dirigente. La stessa ha cioè travolto l’intero processo, non già negando il fondamento dell’annullamento sulla scorta dei fatti dedotti, ma affermando semplicemente ed a priori che il giudice non aveva il potere di annullare, mentre avrebbe avuto soltanto quello di condannare, se del caso, al risarcimento dei danni, non richiesto però in quel processo. La sentenza della Cassazione non è pertanto entrata nel merito della vicenda dedotta in causa, ma si è limitata a dire che mancava un requisito costitutivo o condizione dell’unica azione esercitata e precisamente mancava la possibilità giuridica della domanda rivolta all’annullamento dell’incarico. Poiché oggetto della cosa giudicata è l’oggetto del giudizio e poiché questo si è concluso con la statuizione che il petitum dedotto non poteva a priori essere formulato, né accolto non essendo (secondo la Corte) previsto nel Codice civile l’annullamento degli atti unilaterali (in realtà si trattava di un rapporto bilaterale e di una materia disciplinata da una norma specifica che riconosce al giudice una giurisdizione esclusiva piena), la Cassazione non ha escluso ma al contrario ha aggiunto che sarebbe stata invece possibile l’azione risarcitoria (non svolta). In altre parole, la preclusione della domanda di risarcimento danni, già deducibile sì nel giudizio di annullamento ma non in modo obbligatorio, opererebbe nel secondo giudizio se il giudicato della Suprema Corte avesse riguardato la reiezione della domanda di annullamento sulla base della irrilevanza dei fatti accertati, oppure sul difetto di prova dei medesimi, o sulla negazione della loro contrarietà alle norme di correttezza e buona fede o sul diniego della responsabilità dell’A.O. e dei suio dirigenti. Infatti una reiezione di tale tipo avrebbe poi impedito di chiedere il risarcimento sulla base di una causa petendi già dichiarata insufficiente o non provata ai fini dell’annullamento. Nel caso de quo il giudizio si è concluso soltanto con l’aprioristica reiezione della domanda per la ritenuta carenza del predetto requisito (o condizione) della possibilità giuridica dell’azione, possibilità che di contro è stata ivi invece riconosciuta per il diverso petitum del risarcimento dei danni.

2.3 La giurisprudenza in tema di giudicato implicito e di efficacia della cosa giudicata che copre sia il dedotto, sia il deducibile precisa in modo costante, tanto che si può parlare di jus receptum, che il giudicato copre pure le questioni in concreto non dedotte purché costituenti presupposto logico essenziale ed indefettibile della decisione. Riporto in proposito alcune massime.

– “Può ritenersi formato un giudicato implicito tutte le volte in cui tra la questione risolta espressamente e quella risolta implicitamente sussista un rapporto indissolubile di dipendenza, nel senso che l’accertamento contenuto nella motivazione della sentenza cade su questioni che si presentano come necessaria premessa o il presupposto logico e giuridico della decisione, coprendo il dedotto e il deducibile, e cioè non semplicemente le questioni fatte valere in giudizio, ma anche tutte le altre che si caratterizzano per la loro inerenza ai fatti costitutivi delle domande o eccezioni dedotti in giudizio” (Cass. Sez. I, 18/6/2007, n. 14055, da cui si deduce che l’affermazione in un primo giudizio della impossibilità giuridica di annullare e della contestuale affermazione della possibilità giuridica dell’azione di risarcimento, travolge sì il primo processo nel quale il risarcimento non è stato richiesto, ma non preclude l’azione risarcitoria, d’altra parte espressamente dichiarata ammissibile, in un secondo giudizio, nel quale l’improponibilità della domanda di annullamento non costituisce in alcun modo un presupposto logico e giuridico di quella di risarcimento).

– “Al fine di stabilire se nell’ambito della motivazione di una sentenza pronunziata tra le medesime parti è divenuta irrevocabile, possa individuarsi il giudicato, sia pure implicito, in ordine a tale affermazione in essa contenuta, è necessario non solo che queste siano formulate in modo chiaro e preciso, ma altresì che esse, seppur non costituenti oggetto diretto della statuizione o capo autonomo della decisione, ne rappresentino comunque un presupposto logico ed indefettibile, tale da far ritenere che la questione decisa ne dipenda indissolubilmente” (Cass. 31/8/2005 n. 17568, dalla quale si ricava che a maggior ragione non vi può essere giudicato implicito quando, come nel nostro caso, la Cassazione abbia dichiarato espressamente ammissibile l’azione risarcitoria definendola come l’unica possibile).

– “Il giudicato implicito può ritenersi formato solo quando, tra la questione risolta espressamente e quelle considerata implicitamente decisa, sussista non soltanto un rapporto di causa ed effetto, ma un nesso di dipendenza così indissolubile che l’una non possa essere decisa senza la preventiva decisione dell’altra, poiché diversamente ne risulterebbero illegittimamente pregiudicati i diritti delle parti” (Cass. 21/5/07 n. 11672).

Si possono vedere, tra le altre, in senso conforme: Cass. Sez. Lav. 3/8/07 n. 17078; Cass. Sez. III, 25/5/2010 n. 12717; 6/7/09 n. 15807; Cass. sez. I, 28/5/08 n. 14057; Cass. sez.lav. 30/6/09 n. 15343; Cass.sez. III, 21/5/2007 n. 11672; Cass. 16/3/1996 n. 2205; Cass. Sez. II, 4/11/2005 n. 21352; Cass.sez.lav. 8/1/07 n. 67.

2.4 Nel caso in oggetto vale il principio “tantum iudicatum quantum disputatum vel quantum disputari debebat”. Per risolvere il problema della annullabilità o meno dell’incarico di dirigente non era invero necessario (debebat) affrontare il tema del risarcimento che ben poteva essere discusso in un secondo momento. E’ noto che i giudici non procedono d’ufficio, non prendono in esame una controversia né la giudicano se non lo chiede l’interessato. L’iniziativa del processo spetta cioè alla parte. L’art. 2907 c.c. in merito afferma che “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte” e l’art.99 c.p.c. a sua volta dice che “chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”. Quindi, poiché non si era chiesto il risarcimento, la Cassazione nel precedente giudizio non ha potuto giudicare in merito al medesimo, sicché non ha respinto una domanda che non era stata formulata, mentre neppure ne ha negato i presupposti né a priori, né in fatto, essendosi pregiudizialmente pronunciata esclusivamente sulla non possibilità in linea di diritto dell’azione di annullamento.

In proposito si evidenzia che non contraddice, né tantomeno preclude l’attuale domanda di risarcimento il dispositivo della sentenza della Corte Suprema ove essa “accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda introduttiva”. E’ evidente pertanto che nella specie soccorre la distinzione tra le sentenze che giudicano sui presupposti processuali della ammissibilità o meno delle domande formulate (nel ns. caso di tutela in forma specifica) e le sentenze che accolgono o respingono le domande perché fondate o infondate in fatto. Nel primo caso (come quello in esame) le pronunce hanno un effetto meramente interno al processo in cui vengono pronunciate e perdono ogni importanza con la fine del medesimo. Invece nella seconda ipotesi (che non è la nostra) le sentenza, pronunciando sul rapporto dedotto in giudizio, sono destinate a spiegare la loro efficacia anche e soprattutto fuori dal processo e a sopravvivere ad esso (come appunto invece non può dirsi nella specie). La differenza sta tutta nel comando contenuto nelle sentenze e nei loro effetti (così si esprime Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, Giuffrè 1962, p. 45) . Nel primo giudizio è stato alla fine stabilito (peraltro discutibilmente) che la domanda di annullamento (cioè di tutela in forma specifica) non era di per sé proponibile trattandosi (a parere della Corte) per un verso di una dedotta violazione di norme (artt. 1175 e 1337 c.c.) non imperative e neppure di comportamenti contrari all’ordine pubblico ed al buon costume (art. 1343 c.c.) e per l’altro verso di un atto unilaterale di incarico (omettendo di considerare che ad esso doveva seguire un contratto vero e proprio e quindi un rapporto bilaterale), ma che viceversa – come già evidenziato – era ammissibile soltanto la domanda di risarcimento (formulata poi nel secondo giudizio). Il giudicato riguarda cioè esclusivamente l’improponibilità dell’azione di annullamento non i fatti, né l’azione di danni, la quale anzi è dichiarata ammissibile.

2.5 Infondata ed inaccettabile appare la tesi che il giudicato della Cassazione copra, precludendola, la successiva azione di risarcimento per equivalente perché non tempestivamente proposta all’inizio del primo giudizio. In proposito in linea di fatto va precisato che la domanda in primo grado è stata volutamente e necessariamente limitata alla richiesta di tutela in forma specifica che, se accolta, avrebbe consentito al ricorrente di ottenere l’incarico dirigenziale per un quinquennio, restando egli, ma soltanto in seguito e solo in quanto incaricato, se del caso legittimato ad agire anche per danni da ritardo. L’azione di danni non era cioè all’epoca attuale e se proposta in via subordinata ed eventuale (tanto per la legittimazione attiva che per l’an debeatur) avrebbe visibilmente contraddetto la domanda di annullamento dell’incarico conferito (non si può chiedere di ottenere un incarico e contemporaneamente chiedere di essere risarciti per non averlo ottenuto). In sostanza, la perdita di chance si è concretizzata, in pendenza della precedente causa, solamente quando il ricorrente, preso atto del quinquennio trascorso, ha dovuto optare per il risarcimento per perdita di chance. Quindi non si può affermare che la sentenza della Cassazione, coprendo pure il deducibile, preclude la diversa azione risarcitoria (benché peraltro ammessa in ipotesi dalla stessa Corte). I danni non erano necessariamente conseguenti alle richieste di tutela in forma specifica, ma erano (come lo sono stati poi) configurabili solo in caso di reiezione in via pregiudiziale della richiesta di annullamento. Quindi la domanda di risarcimento era (secondo la pronuncia della S.C.) proponibile esclusivamente in via alternativa, eventuale e subordinata, facendo valere non l’invalidità degli atti (incarico, contratto e rapporto conseguenti) ma la scorrettezza dei comportamenti dell’Amministrazione e dei suoi funzionari.

2.6 Si può qui richiamare altresì una limpida affermazione della Corte di legittimità (Cass. 21-7-2006 n. 16781) ove si legge: “La cosa giudicata negativa copre i cosiddetti dedotto e deducibile, ossia non soltanto la questione decisa ma anche tutto quanto necessariamente ne discende, sia stato o non espressamente discusso tra le parti (ex multis, Cass. 13-11-1997 n. 11228; 23-12-1999 n. 14477; 14-11-2000 n. 14477)”. Nel nostro caso si deve però escludere che dalla sopravvenuta sentenza della Suprema Corte necessariamente discenda la reiezione della domanda di danni che anzi è fatta palesemente salva.

In proposito rileva pure la seguente massima: “L’accertamento su un punto di fatto o di diritto costituente la premessa necessaria della decisione divenuta definitiva (nel ns. caso relativa soltanto alla reiezione in linea di diritto processuale della domanda di invalidità dell’incarico), quando sia comune ad una causa introdotta posteriormente preclude il riesame della questione a condizione che i due giudizi abbiano identici elementi costitutivi dell’azione (soggetti, causa petendi e petitum)” (Cass. 23-12-1999 n. 1447).

A conferma si trascrive infine pure la seguente pronuncia: “Il principio cosiddetto del “dedotto e deducibile” concerne le ragioni non dedotte che si presentino come un antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia, nel senso che deve ritenersi preclusa alle parti stesse la proposizione, in altro giudizio, di qualsivoglia domanda avente ad oggetto situazioni soggetive incompatibili con il diritto accertato” (Cass. 14-11-2000 n. 14747).

2.7 In definitiva, il criterio del dedotto e deducibile preclude il riesame dello stesso punto di diritto o di fatto accertato e risolto in un precedente giudicato esterno, sicché nella specie, mentre non è preclusa l’azione risarcitoria, è viceversa ormai indiscutibile il principio di diritto, enunciato dalla stessa Cassazione, della proponibilità dell’azione di risarcimento, nonostante la sua reiezione (a priori) di quella di invalidità.

Avv. Giuseppe Onofri

(6/10/2010)